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Data Center Green

Data Center. La sostenibilità come scelta vincente
 

Set. 13 2023

Ormai da diversi anni media tradizionali e social riportano i dati dei consumi energetici dei Data Center. Evoluzione ultima di questa tendenza sono le news su quanti TWh sono necessari al compimento delle cosiddette operazioni di “mining” nella produzione di criptovalute.

A metà fra l’informazione e la curiosità, la diffusione di queste notizie ha avuto il merito di mostrare all’opinione pubblica che dietro l’apparente immaterialità (conservazione, elaborazione e trasmissione dei dati informatici) vi sono elementi concreti e misurabili piuttosto importanti dal punto di vista della sostenibilità ambientale.

Stime dell’Agenzia Internazionale dell’Energia dicono che i data center consumano tra i 240 e i 340 TWh/anno, che corrispondono a circa l’1-1,5% dei consumi elettrici globali; per avere un metro di paragone, basti sapere che il fabbisogno italiano del 2022 è stato di 316,8 TWh. 
Un importante discrimine per giudicare questo dato e il suo impatto sull’ambiente è capire l’origine dell’elettricità usata per far funzionare i grandi server e i calcolatori che popolano questi luoghi (fonti fossili o rinnovabili). Non solo. Anche l’efficienza energetica di queste infrastrutture conta. I forti miglioramenti in questo settore hanno contribuito a limitare la crescita della domanda di energia dei data center a livello globale nonostante un aumento esponenziale dei carichi di lavoro e del traffico internet (rispettivamente +340% e +600% dal 2015). Inoltre, la ricerca e sviluppo di tecnologie più avanzate – specialmente nell’ambito dei sistemi di raffreddamento – ha incrementato l’efficienza dei data center.

Non bisogna dimenticare che le aziende ICT – specialmente le big company – si segnalano fra le migliori acquirenti di energia rinnovabile, anche grazie all’utilizzo di formule contrattuali come i Power Purchase Agreement o PPA. Un modo per ottenere almeno tre importanti benefici: mettersi al riparo dalla volatilità dei prezzi dell'energia, agire in maniera sostenibile e migliorare la brand reputation. 
Tra i driver in grado di guidare i data center verso un sempre migliore approccio sostenibile vi sono anche le scelte del legislatore e la loro “messa a terra” sottoforma di norme e regolamenti. In questo senso l’Europa Comunitaria ne è un esempio perfetto, a partire dalla cosiddetta “Tassonomia” (Regolamento 2020/852), ovvero il decisivo sistema di classificazione che stabilisce quali attività sono sostenibili (e finanziabili) e quali invece no. In particolare, l’attenzione va posta sul principio del “non arrecare un danno significativo” all’ambiente, meglio noto come DNSH, “Do No Significant Harm” in inglese. Perché è importante? Il rispetto di questo principio è obbligatorio se si vuole accedere ai consistenti fondi che – in questo caso – il PNRR mette a disposizione per progetti di innovazione e digitalizzazione.

Facciamo un passo indietro. Già nel 2008, la Commissione Europea – con il supporto del Joint Research Center JRC – aveva elaborato un Codice di Condotta europeo per l’Efficienza Energetica dei Data Center (CoC) per stimolare gli operatori del settore ad adottare comportamenti e misure in grado di ridurre sensibilmente i consumi, in un’ottica di maggiore sostenibilità. Un’iniziativa che, nel corso degli anni ha spinto soggetti privati a dare vita – siamo nel 2021 – al cosiddetto Climate Neutral Data Centre Pact. Si tratta di un progetto al quale aderiscono più di 100 fra operatori di data center e associazioni di categoria e che ha come obiettivo quello di rendere le infrastrutture climaticamente neutre entro il 2030. Le aree su cui intervenire sono: efficientamento energetico ed energia circolare, utilizzo di energia pulita, efficientamento nell’uso della risorsa idrica e economia circolare. Il tutto, in stretta osservanza con quanto postulato dalla politica comunitaria di Green Deal. 
Una questione, quest’ultima, decisiva per l’accesso ai fondi europei tanto oggi (con il PNRR) come domani (con altre iniziative di finanziamento).

Attualmente, vi sono diverse realtà aziendali internazionali che hanno visto riconosciute le proprie attività conformi al CoC europeo e che dunque risultano compliant al principio del Do No Significant Harm. Tra di esse, nessuna italiana almeno fino al giugno di quest’anno, quando Aruba, il principale cloud provider del nostro Paese, ha ottenuto la dichiarazione di conformità da Bureau Veritas, in qualità di ente terzo. Una dichiarazione che insieme alla certificazione ISO 14001 – anch’essa rilasciata da Bureau Veritas – garantisce il rispetto dei requisiti DNSH. In aggiunta, il Codice di Condotta europeo contribuisce alla conformità ai requisiti del framework del Climate Neutral Data Center Pact (ancora una volta validati da Bureau Veritas), di cui Aruba è firmataria insieme ad altri provider europei.