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Formazione, strumento per governare una realtà in evoluzione

Mar. 16 2021

“Il numero di transistor che è possibile stampare su un circuito integrato raddoppia ogni 18-24 mesi”. Nel 1965, l’allora direttore esecutivo di Intel, Gordon Moore, elaborò questa teoria per descrivere le modalità di sviluppo della microelettronica, mostrandone l’evoluzione continua e rapida. 
Fatte le debite proporzioni, il sistema di Moore diviene specchio o metafora delle nostre società, non solo strettamente vincolate alla tecnologia e ai suoi progressi (informatica e digitale) ma anche soggette a cambiamenti nella sfera socio-economica sempre più rapidi e frequenti. Una tendenza nata negli anni Settanta del secolo scorso e che con l’arrivo degli anni Duemila pare aver subito un’ulteriore accelerazione. 
Con oggettivi e importanti risvolti sulla vita lavorativa. E si tratta sia di cambi che coinvolgono le professioni (ne nascono di nuove, altre vengono superate) sia l’organizzazione del lavoro (con conseguenze di natura sindacale) sia che richiedono una modifica all’approccio stesso al lavoro da parte degli individui, al loro modo di affrontare i problemi, gestire le situazioni, trovare soluzioni e dare risposte puntuali e pertinenti alle richieste. Una trasformazione che coinvolge anche un aspetto più riconducibile al campo della “mentalità” – mindset – oltre che a quello delle sole competenze.
 
Le aziende, in questo senso debbono affrontare una duplice sfida se desiderano non solo resistere – essere resilienti – ma anche governare il cambiamento, in maniera da trarne il massimo dei profitti.
Da una parte è fondamentale perseguire un costante adeguamento tecnico e tecnologico in modo da rimanere competitivi rispetto a un mercato che è noto ha oltrepassato i sicuri e ristretti confini nazionali per diventare globale. In questo senso, la digital industry o manufacturing è la dimostrazione più chiara di queste tanto straordinarie quanto veloci trasformazioni; la “fabbrica” stessa, quale punto centrale dell’attività economica contemporanea (almeno dall’Ottocento in poi), è – in questa fase 4.0 – rivoluzionata sia come spazio fisico, sia come espressione del produrre, sia come popolazione che la frequenta.  
La persona rimane elemento nodale. Anzi, oggi ancora più di ieri, l’irrompere della tecnologia e dell’automazione in ogni fase della vita lavorativa necessita di persone in grado di saper usare, gestire, dirigere queste strumentazioni, hardware e software. Anche secondo una logica che vede la compenetrazione di due assi, quello verticale delle conoscenze specialistiche, indispensabili in una società avanzata, e quelle orizzontali (soft skill) altrettanto importanti se si vuole che le prime siano sfruttate al meglio. L’incapacità di leggere la realtà in maniera trasversale, capendo l’ampiezza e la portata delle situazioni diviene un fattore critico tanto quanto quello della mancanza di competenza specialistica. La complessità delle circostanze e la relazione fra le componenti che costituiscono il mondo esterno hanno bisogno di individui-lavoratori in grado di “ragionare per problemi” e non solo per temi. Un discorso valido sia per posizioni apicali e di management sia per altre funzioni.

A questo contesto – globalizzato, multiforme, in continua evoluzione – si è sommato un ulteriore e imprevedibile generatore di cambiamento: la pandemia da COVID-19. 
Oltre alle drammatiche conseguenze sulla salute, l’emergenza sanitaria ha costretto le persone a modificare abitudini e comportamenti, in privato e in pubblico, lavoro compreso. L’adozione di soluzioni smart working – più o meno organizzate e codificate – è solo la manifestazione esteriore più evidente delle trasformazioni radicali alle quali tutti siamo stati chiamati a conformarci. Così come una rapida alfabetizzazione di una consistente parte dei lavoratori nell’uso dei device informatici e dei relativi programmi. 
Tuttavia, non si deve cadere nel luogo comune che vede la crisi come “un’opportunità” da sfruttare. 
Piuttosto il contrario. La crisi – con il suo repentino presentarsi – costringe al cambiamento. Genera reazione. Ma un’organizzazione aziendale, per rimanere competitiva e governare la trasformazione deve essere preparata, pro-attiva più che re-attiva, dettando i tempi, incorporando le modifiche all’interno di un quadro strategico ben definito, senza aspettare che si presentino, per l’appunto, circostanze critiche che rendono il cambio inevitabile.

Attendere, stare fermi, scegliere di “essere guidati”, piuttosto che “guidare” significa spesso andare incontro a rischi molto alti. Più elevati di quanto si immagina considerando quanto le aziende nostrane ancora poco investono nella formazione: attualmente, la quota di italiani (fra 18 e 74 anni) che hanno svolto un’attività formativa si attesta intorno al 40% (ISTAT) (visualizza la nostra infografica). Troppo poco se si vuole rimanere competitivi. 

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