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Covid Manager. Il rischio biologico-sanitario va oltre la pandemia

Gen. 27 2021

Durante i primi mesi della pandemia da Covid-19, quelli del lockdown stretto e generalizzato, si è spesso utilizzata l’espressione “niente sarà più come prima”, iperbole per indicare quanto il mondo – e con lui le nostre vite – sia stato stravolto dall’emergenza sanitaria.
Oggi invece, a quasi un anno dell’arrivo della malattia in occidente, si sente ripetere quanto la diffusione del virus, abbia “colto tutti impreparati”. Un’impreparazione che – seppur con diverse gradazioni – ha riguardato i vari ambiti della vita delle nostre società, compreso quello economico-produttivo con i suoi inevitabili riflessi sull’organizzazione delle aziende e del mondo del lavoro.

Non vi è alcuna vis polemica in questo riconoscimento, anzi. Ragionare sulle mancanze non significa né minimizzare la situazione contingente, unica ed eccezionale per gravità, rapidità di diffusione, forza d’urto, né essere così ingenui da ritenere che la crisi sanitaria poteva essere controllata, arginata senza eccessivi danni e sforzi. Vuol dire, piuttosto, provare a capire cosa non ha funzionato in maniera da dotarsi di quegli strumenti tecnici, procedurali e culturali in grado di fronteggiare un’eventuale altra situazione critica, riducendo o mitigando gli impatti negativi.
Alcuni dati possono aiutare nella comprensione. Secondo una survey svolta prima del marzo 2020 da ANRA, la maggioranza delle aziende italiane (51%) era sprovvista di un piano – sia strutturato che in forma embrionale – di crisis management. Tra quelle che invece, ne avevano già predisposto uno, solo il 14% aveva preso in considerazione l’ipotesi di una pandemia. Eppure, il rischio pandemico – pur lontano dalle nostre vite pre-Covid – era comunque considerato tra quelli più elevati a livello globale, come denunciato con sempre maggiore insistenza dall’Organizzazione mondiale della Sanità almeno dal 2018.

Una tendenza a privilegiare altri pericoli che non riguarda solo le imprese italiane. Tra il 2018 e il 2020, prima che la pandemia si profilasse all’orizzonte, l’attenzione delle aziende era concentrata su altre tipologie di rischio, rispetto a quello biologico-sanitario. Nell’edizione 2020 dell'European Risk Manager Report, le preoccupazioni espresse dagli intervistati si dirigevano verso: attacchi cyber, il perdurare o l’inasprirsi dell’incertezza economica a livello mondo e il non avere a disposizione talenti-chiave (availability of key skills) per resistere alla concorrenza. Alla richiesta dei ricercatori di guardare più in là, a 10 anni, le risposte dei manager intervistati riguardavano soprattutto gli effetti del climate change e i possibili cambiamenti nelle abitudini dei clienti, ma non quella della diffusione di un virus al quale la medicina non aveva ancora dato soluzioni definitive. 
Una tendenza che, va da sé, si è andata modificando di pari passo con la diffusione del Covid-19 quale fenomeno pandemico. Se ne ha un esempio scorrendo i dati presenti nel COVID-19 Risks Outlook del World Economic Forum, pubblicato a maggio 2020. In questo documento le preoccupazioni dei risk manager hanno cominciato a mutare, sebbene non in maniera così decisa come ci si aspetterebbe oggi, alle prese con la continua crescita dei contagi. Infatti, guardando nella prospettiva del rischio per le aziende, il prolungarsi o l’arrivo di un’altra ondata veniva posta solo al settimo posto (35,4%), dietro il timore di “prolungata recessione globale” (66,3%), la possibilità di fallimenti in serie e di nuovi necessari consolidamenti (52,7%), gli attacchi informatici e le frodi (50,1%), la mancata ripresa di interi settori industriali (51,1%), l’interruzione delle catene di approvvigionamento (48,4%) e le restrizioni al commercio e allo spostamento delle persone (42,9%).

Solo nei mesi successivi a questa indagine, nella “nuova normalità” caratterizzata dalla prolungata emergenza da Covid-19, è emerso quanto importante sia avere in azienda una persona competente, formata e responsabile per quanto riguarda la gestione del rischio in ogni suo aspetto da quello normativo a quello più prettamente sanitario. Essa è chiamata a svolgere funzioni di coordinamento per l’attuazione delle misure di prevenzione e controllo anti-contagio in azienda nonché a essere punto di contatto per le strutture del Sistema Sanitario Regionale. Una figura di riferimento per i dipendenti, capace di trasmettere consapevolezza dei rischi e, nel contempo, spingere verso l’attuazione di comportamenti virtuosi e sicuri. 
Anche in questa contingenza, gestire in maniera razionale e preparata situazioni difficili se non estreme, facendo scelte adeguate al momento giusto, è discriminante per l’ottenimento di due fra i primi obiettivi di un’organizzazione aziendale (ma non solo): proteggere la sicurezza degli operatori e garantire, per quanto possibile, la continuità operativa.
E questa ultima riflessione, in qualche misura, già risponde alla possibile e legittima domanda sull’utilità di figure come queste una volta passata l’emergenza e con la campagna vaccinale che avanza in molte nazioni. 
Un manager in grado di gestire il rischio e l’emergenza in ambito sanitario e biologico non è di secondaria importanza. E non solo per quelle aziende che normalmente si confrontano con questo tipo di problematiche (come l’industria chimica o farmaceutica).
Egli diviene un pezzo fondamentale nella costruzione di un sistema di gestione della sicurezza delle persone e del business che sia davvero funzionante e dunque efficace, al di là e non solo durante l’eccezionalità dell’evento pandemico. Anzi, la lesson learned da trarre da questo tragico periodo è quella di cominciare ad annoverare il rischio sanitario fra quelli che minano maggiormente il settore produttivo e dei servizi e, dunque, la vita di un’azienda.

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