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Supply Chain Sostenibile. Cosa sanno le aziende dei loro fornitori?

Nov. 23 2020

Sempre più consumatori orientano le proprie scelte verso la sostenibilità. Si parte dalla spesa alimentare per approdare alla cosmesi, alla moda o all’igiene. L’85% di coloro che si occupano di fare regolarmente le compere afferma di soffermare la propria attenzione in primo luogo su prodotti  rispettosi dell’ambiente. Un orientamento che si prevede proseguirà anche nel 2021, con più di un terzo degli italiani (36%) deciso ad aumentare acquisti di prodotti che rispondono a questi criteri.

Che si sia di fronte a un impegno da prendere seriamente lo conferma il meccanismo della “Willingness to Pay”, ovvero la “disponibilità a pagare di più” per avere un bene ritenuto adeguato alle proprie aspettative. In pratica, se nel 2014, per il 45% dei nostri connazionali era contemplabile sborsare più quattrini per avere un prodotto sostenibile, oggi questa percentuale è aumentata di ben 30 punti, attestandosi al 75%. 
Non solo. Scelte virtuose che si declinano anche con prese di posizione piuttosto nette, visto che 2 consumatori su 3 si dicono disposti a cambiare punto vendita in caso venga ravvisata una scarsa attenzione a politiche eco-friendly. 
Un’attitudine non nuova, ma che negli ultimi anni si è rafforzata grazie alla diffusa presa di consapevolezza nei riguardi del climate change e dell’emergenza ambientale. Gli studi sull’aumento della temperatura atmosferica, le percepibili modificazioni metereologiche e le campagne sull’inquinamento (si pensi a quella no waste e a quella sulla plastica) stanno dando i loro frutti.  Oggi 3 italiani su 4 affermano di avere una conoscenza discreta (1 su 3 dice “buona”) del significato e delle implicazioni che vi sono dietro alla parola “sostenibilità”. 
Fra queste, la principale è individuata nell’impatto che le scelte fatte oggi avranno sulla vita delle generazioni future. Ma non bisogna sottovalutare nemmeno la ragione legata alla “salute e benessere personali” – seconda in ordine di importanza – che si traduce in acquisti ecosostenibili o bio. Un atteggiamento di attenzione verso l’ambiente e se stessi che l’irrompere del Covid-19 sembra aver rafforzato, con una buona fetta di italiani (27%) che acquista prodotti sostenibili/ eco-friendly “di più” rispetto al periodo pre-pandemia. 
In clima fertile e recettivo, con importanti quote di cittadini desiderosi di consumare responsabilmente, il concetto di sostenibilità va oltre il perimetro dell’azienda e si estende lungo tutta la sua catena del valore. Così, dal singolo bene si allarga alla modalità con la quale il bene è stato prodotto e, da lì, all’intera catena di fornitura coinvolgendo aspetti che fino a qualche anno fa venivano poco considerati ma che oggi hanno preso sempre più spazio. Si tratta per esempio delle condizioni economiche dei lavoratori e dei fornitori, della sicurezza e della salute, della legalità e delle scelte per approvvigionamenti trasparenti. 
In questo senso, vanno letti i dati sulla “reputazione” sostenibile di un’azienda, oggi in grado di influenzare le scelte di acquisto del 32% degli italiani, una percentuale doppia rispetto al 2015, quando era del 16%.
Ancora una volta si ha la conferma che il valore dell’impresa non risiede soltanto nell’eccellenza del prodotto/servizio, ma anche nella capacità di costruire e consolidare il rapporto con il cliente, la comunità locale, le autorità e, in generale, con tutte le parti interessate.
Una “pressione” o, se si preferisce, un’indicazione che le organizzazioni produttive e i brand correlati avvertono sempre più: secondo il 76% delle imprese del nostro Paese, sono i clienti a spingere per una supply chain sostenibile. Come spesso accade, tuttavia, all’interno delle aziende vi è uno scarto tra quanto si è consapevoli vada fatto e quanto, invece, è messo in pratica. Nella maggioranza dei casi, infatti, il controllo sulla catena di fornitura è minimo e si ferma al primo livello (e nemmeno di tutti), mentre solo in una percentuale residuale (7%) si allarga a tutta la supply chain.
Eppure, adottare un approccio responsabile è già ora – e lo sarà ancor di più nel futuro prossimo – uno dei pilastri su cui fondare le proprie strategie aziendali, un elemento vitale per ottenere quel vantaggio competitivo in grado di consentire di aumentare i risultati e di resistere a una concorrenza sempre più forte, diversificata e globale. Per farlo è, dunque, imprescindibile agire sulla catena di fornitura, adoperandosi affinché sia davvero sostenibile in tutte le sue maglie. 
 

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La norma SA 8000 è un valido strumento a disposizione delle imprese. Primo standard etico certificabile, definisce i requisiti di un sistema di gestione per tutelare i diritti dei lavori all’interno di un’organizzazione e lungo la sua filiera. Tra i punti di forza vi è la capacità di toccare la sfera della Responsabilità Sociale per quanto riguarda le condizioni dei lavoratori (diritti umani, sviluppo, valorizzazione, formazione e crescita professionale delle persone, salute e sicurezza dei lavoratori, non discriminazione, lavoro dei minori e dei giovani) con un requisito specifico relativo al monitoraggio dei fornitori.
Nonostante la SA 8000 non copra tutti gli ambiti della Corporate Social Responsibility (CSR) e non tocchi, ad esempio, le questioni ambientali, essa risulta avere un impatto molto forte sul “rischio di reputazione” dell’organizzazione.
Uno strumento importante, forse il principale, ma non l'unico in grado di aiutare le aziende. Vediamo quale altra strada percorrere. 
Il primo passo verso un reale cambiamento può partire da una semplice domanda: “che cosa so dei miei fornitori?” O in altre parole, come garantire un presidio efficace della propria catena di fornitura?
Un approccio strategico alla gestione della supply-chain presuppone azioni sistematiche, a partire dall’identificazione dei fornitori che espongono ad un rischio maggiore, così da orientare al meglio le risorse funzionali al monitoraggio della filiera. Non potendo controllare tutti i fornitori per esigenze di budget e tempo a disposizione, è essenziale focalizzarsi su quelli che potrebbero portare a criticità. Per farlo in maniera corretta è necessario un serio ed approfondito lavoro di analisi – magari sotto forma di questionario preliminare o audit documentale – così da raccogliere le informazioni preliminari per una valutazione del profilo del fornitore.
I punti sui quali è importante porre attenzione sono il modo con cui il fornitore regola i rapporti di lavoro, come affronta le questioni inerenti salute e sicurezza, che azioni compie per rendere meno impattante la sua attività sull’ambiente, quale è il grado di legalità e quale approccio etico utilizza nel gestire la propria attività. Lo screening effettuato tramite questionario o audit documentale permette di identificare il livello di rischio teorico del fornitore: sui fornitori più a rischio sarà opportuno condurre dei veri e propri audit.
A seguito degli audit, si procede a rivedere il profilo di rischio del fornitore in funzione del risultato ottenuto. Questo è il principale indicatore per avere una valutazione complessiva del fornitore, elemento basilare per instaurare una consapevole gestione dei rapporti con lo stesso.
A completamento non bisogna dimenticare le verifiche periodiche, per monitorare la situazione ed eventualmente intervenire per sanare e risolvere situazioni non conformi. Una questione particolarmente sentita da quando globalizzazione dei mercati e outsourcing hanno reso – era inevitabile – le catene di fornitura sempre più articolate e complesse e, dunque, anche più difficilmente controllabili.

Fonti: Coop, Rapporto 2019 e 2020 – Nielsen 2015 e 2020 – Legambiente-Ipsos, L’economia circolare in Italia 2020 - Lifegate, 6° Osservatorio nazionale sullo stile di vista sostenibile 2020 – GFK Eurisko 2018 – ConsumerLab ottobre 2020

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