Il Biologico senza etica? Buono a metà
Nel 2002, il 28% degli italiani affermava di adottare scelte di consumo responsabile; nel 2020, questa percentuale è salita al 62,3%, con il 219% di aumento ad attestare una tendenza ormai più che consolidata (OCIS).
Consumo responsabile o critico, spesa sostenibile, etica dei consumi: espressioni che descrivono attitudini e approcci alternativi quando si tratta di acquistare beni o servizi. Specialmente negli ultimi decenni, le scelte di consumo sono sempre più divenuti elementi centrali nella rappresentazione dell’identità sociale. Lo status di “cittadino” e il ruolo di “consumatore” prima distinti, hanno cominciato a convergere verso una nuova figura, quella del cittadino-consumatore che orienta e adegua le proprie abitudini di acquisto a uno o più sistemi di valori. Nella convinzione che la scelta operata, facendo pressione sugli altri soggetti della catena sia in grado di modificare tutta l’offerta del mercato nella direzione desiderata.
In questo panorama di consumi consapevoli, quello verso il biologico emerge sugli altri per importanza di diffusione e longevità. Se nel 2000 l'incidenza dei prodotti biologici sulla spesa degli italiani era dello 0,7% attualmente supera il 3,5% e l’acquisto di prodotti alimentari bio ha raggiunto i 2,5 miliardi di euro, con tendenza a crescere.
Benché oggi il prototipo del consumatore di organic goods sia meno marcato rispetto alle origini, visto l’allargamento della base di acquirenti, è comunque possibile tracciarne un identikit piuttosto verosimile. Specialmente sul versante “valoriale”. Infatti, oltre al desiderio di tutelare l’ambiente e alla volontà di consumare prodotti naturali, fra i valori condivisi vi sono anche quelle radici etiche che affondano nell’antica convinzione che “buono” e “giusto” debbano sovrapporsi, come unico elemento.
Una sovrapposizione che chiama in causa il concetto di “responsabilità sociale”, sotto il quale trovano spazio questioni di fondamentale importanza come il rispetto dei diritti dei lavoratori, delle minoranze, delle comunità, l’adozione di comportamenti equi ed etici sul piano delle scelte di governo (a tutti i livelli), la lotta alla corruzione e alla discriminazione, la protezione e la promozione della salute degli individui.
Ma in realtà tra biologico e responsabilità sociale non vi sono legami codificati ed espliciti. Infatti, se dal punto di vista della realizzazione, il prodotto biologico è garantito da un quadro normativo piuttosto articolato e vincolante che assicura una conformità certificata a standard chiari e stringenti, per quanto riguarda la tutela dei lavoratori si dà per scontato ed assodato il rispetto della legge. Purtroppo, nel nostro Paese, la piena conformità alle norme sui diritti dei lavoratori, tra cui la salute e la sicurezza, è tutt’altro che scontata.
Infatti, secondo il Report 2019 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, il 48% delle irregolarità contestate nel settore agricolo hanno riguardato l’uso di manodopera “in nero” (2.719 lavoratori). A questo si aggiunga che dalle 5.806 ispezioni effettuate nel settore agricolo è emerso un tasso di irregolarità del 59,3%, superiore di oltre 4 punti percentuali rispetto al 2018 (54,8%). Non solo. Spesso a situazioni di irregolarità va a sommarsi un altro fenomeno, odioso perché colpisce i soggetti più disperati e senza possibilità di tutela, come per esempio i migranti. Si tratta del cosiddetto “caporalato”, pratica purtroppo non così inconsueta nelle aziende agricole italiane (soprattutto al sud) che prevede il reclutamento di lavoratori per brevi periodi senza alcuna tutela e a condizioni salariali a livello di sfruttamento. All’illegalità di questo sistema si sommano le violenze, le intimidazioni e le minacce che i “caporali” – sovente legati ad organizzazioni criminali – utilizzano per evitare che i lavoratori sfruttati denuncino la situazione alle autorità. Sempre secondo l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, il fenomeno del caporalato ha toccato soprattutto il settore agricolo: 1.488 casi rilevati di cui la maggior parte riguardanti lavoratori “in nero”, stranieri o clandestini.
Dato il contesto appena descritto, è evidente che un approccio responsabile a 360° non possa prescindere da un’attenzione sia agli aspetti ambientali che a quelli sociali. Un’attenzione alla sola questione ambientale – senza farsi carico delle problematiche della tutela dei lavoratori – non risponde appieno alle esigenze dei consumatori che chiedono prodotti sani e rispettosi dei diritti umani.
Tutela dell’ambiente e dei lavoratori devono trovare forza e legittimazione proprio nell’essere uniti.
Un approccio che diverse aziende che producono e commercializzano prodotti biologici stanno adottando, soprattutto in termini di monitoraggio dei fornitori e dunque di gestione del rischio della supply chain.
Come arrivare all’unione virtuosa tra sostenibilità e responsabilità, dandone evidenza al mercato? Vi sono diverse strade. Si può dimostrare la propria affidabilità attraverso un audit SMETA, oppure ottenendo la certificazione SA8000 e/o la certificazione Social Footprint.
Gli Audit SMETA – basati su una metodologia diffusa a livello internazionale - sono attività di verifica di seconda parte (audit etico/sociali) che hanno come obiettivo il monitoraggio e l’affermazione di buone pratiche per il «Responsible Sourcing». Nello specifico vengono presi in esame temi come il rispetto dei diritti umani e della dignità dei lavoratori (libertà di associazione, rispetto delle differenze, retribuzione e orario di lavoro adeguati), la salute e sicurezza sul luogo di lavoro, la tutela dell’ambiente e la Business integrity e l’etica d’impresa. Questo genere di audit è particolarmente considerato da importanti catene europee della GDO e grandi aziende del settore alimentare riunite nell’associazione AIM (Association des Industries de Marque o European Brands Association).
A questo si affianca una piattaforma web come SEDEX, acronimo di Supplier Ethical Data Exchange, che facilita e supporta le operazioni di caricamento e accesso ai dati.
Un’altra strada è quella proposta dalla certificazione SA8000. Con essa si descrive un sistema di gestione della responsabilità sociale, sul modello Plan-Do-Check-Act, perfettamente integrabile con altri sistemi di gestione, certificabile da parte terza. È fondata sul monitoraggio della catena di fornitura: l’azienda certifica non solo l’impegno alla responsabilità sociale al proprio interno, ma anche un impegno a selezionare e monitorare i propri fornitori sotto il profilo della responsabilità sociale.
È stata sviluppata e pubblicata nel 1997 dall’organizzazione internazionale Social Accountability International (SAI) a fronte di un vasto processo di ricerca e consultazione delle parti interessate ed è basata sui più famosi atti internazionali a sfondo etico sociale (Dichiarazione dei Diritti Umani, Convenzioni ILO).
Infine, vi è la Social Footprint. Questa certificazione copre gli stessi temi della SA8000 (tutela dei diritti dei lavoratori), ma è focalizzata su uno specifico prodotto. Essa attesta che l’azienda che ha immesso sul mercato quel determinato prodotto e tutta la filiera che ha contribuito a quel prodotto rispettano i diritti dei lavoratori. Il grande vantaggio della certificazione Social Footprint sta nella possibilità di apporre uno specifico logo sul prodotto coperto dalla certificazione, cosa che nella SA8000 non è possibile. La possibilità di apporre una etichetta rende lo schema particolarmente efficace per veicolare un messaggio al consumatore.